Servizio Civile Universale

Essere volontario in Zambia: il racconto di Salvatore

Written by francesca

Prima di partire per lo Zambia non mi sono  chiesto poi così tanto cosa stessi facendo o dove la mia vita stesse andando a parare. Sono semplicemente partito per confrontarmi, come ormai mi capita spesso, con differenti realtà, ma soprattutto con ciò che non ho mai avuto modo di conoscere direttamente.

Il primo impatto con la nuova realtà (io e l’altro volontario che è partito con me, Tobia) lo abbiamo avuto a Lusaka, la capitale, per completare le prime questioni burocratiche relative al permesso di soggiorno e successivamente a Kasama in una scuola.
Non dimenticherò mai l’accoglienza che ci hanno riservato i ragazzi, con i tamburi e i canti locali; hanno avuto la capacità di smuoverci dentro, ballavamo senza rendercene conto.
Subito dopo è arrivato il momento in cui mi è stata concessa la possibilità di suonare con la chitarra “Bella Ciao”, di fronte a tutta la scolaresca. Sentivo le loro voci sconosciute venirmi incontro come se avessero memorizzato le parole da tempo, come se stessero aspettando il nostro arrivo per rendercele.
In verità, è il potere della musica che porta con sè tutte le lingue del mondo e unisce sempre, a ogni latitudine, ogni cuore pulsante.
Era tutto meravigliosamente autentico.
Questo è ciò che avrei scritto nel mio diario di viaggio giorni dopo:
“Abbiamo raggiunto la nostra meta finale Luwingu,una piccola comunità nella Northern Province, che è il luogo dove svolgeremo la nostra esperienza di servizio civile.”

Ci sarebbero davvero troppe storie da raccontare, però ho deciso di soffermarmi a descrivere il progetto che io e il mio amico Tobia abbiamo deciso di implementare per combattere il Covid- 19 e favorire allo stesso tempo uno sviluppo di conoscenza creativo attraverso la produzione del sapone, la distribuzione e realizzazione di mascherine.
“Portare il proprio sapere e apprendere l’altrui”.
Le attività le abbiamo svolte e le stiamo svolgendo all’interno dei villaggi, grazie alle tantissime donazioni ricevute principalmente dall’Italia e non solo.
Lungo le strade principali, tra il bosco, ci sono delle piccole abitazioni costruite con materiale argilloso che caratterizzano  tutto il territorio del distretto di Luwingu. E’ qui che sorgono i villaggi , dei piccoli centri abitativi dove la vita prende forma dall’alba al tramonto.
Per raggiungerli bisogna percorrere alcune vie secondarie, noi le attraversiamo quasi tutti i giorni su un pick up con Suor Marie Claire, la nostra coordinatrice al volante.
Il tragitto è un pozzo senza fondo di esperienze, sempre diverse e sempre uguali; tanti, troppi bambini sul ciglio della strada, che urlano festosi frasi in dialetto, talvolta incomprensibili e ci salutano impazienti di vederci all’opera.

E’ importante sottolineare che in Zambia ci sono moltissimi dialetti, il Bemba è quello predominante della Northern Province. Stiamo cercando piano piano (“panono panono”) di impararlo così da rendere più agevole l’inclusione nella comunità e sentirci così parte integrante di essa, iniziando dalle parole più semplici come ad esempio “tuatotela“ per dire grazie,  “mwabukashani” per dare il buon giorno,“mwendebwino” per dire buon viaggio, “umusungu” che significa bianco; qui veniamo chiamati così e la cosa ci fa sempre molto sorridere perche è il loro modo di darci il benvenuto.

A Luwingu è un continuo salutarsi. Se un giorno vi capiterà di viverla , vi accorgerete di come si lavora principalmente per strada. C’è qualche piccola attività commerciale oltre ai mercati all’aperto, ma i mestieri predominanti sono il sarto,il biciclettaio, il barbiere,il panettiere,il macellaio, il muratore,  il falegname e l’agricoltore  (il 70 % delle persone vivono di agricoltura). Ogni volta che li si incontra, l’usanza principale è dire “mwabombeni” che significa buon lavoro , o “Mulishani” che vale invece per tutti gli incontri per dire “come stai?”

Gli abitanti dei villaggi,soprattutto i più piccoli, sono sempre immancabilmente emozionati al nostro arrivo, cercano subito un contatto con noi come fossimo sempre stati parte della loro quotidianità.
A causa del coronavirus, purtroppo non abbiamo potuto ricambiare con la stessa moneta quell’affetto diretto e travolgente,ma lo abbiamo fatto in altri modi.
Ho immortalato un momento in cui una bimba, figlia di un falegname del posto, ha cercato di porgere la mano a Tobia che a malincuore non ha potuto ricambiare.
E’ stato e continua ad essere frustrante mantenere il distanziamento sociale , a volte è risultato quasi impossibile, ma ce l’abbiamo messa tutta pur di operare in sicurezza per noi e per gli altri. Questa è la prova vivente di quanto dei rapporti umani non si possa fare a meno.

Il tragitto per raggiungere i villaggi, per quanto faticoso, date le strade dissestate, l’ho voluto associare al termine “lentezza”.
Qui si vive lentamente, almeno nei villaggi, passo dopo passo, senza fretta.
Non esiste la frenesia di arrivare alle cose, la lentezza ha una relazione importante e diretta con le attività più disparate. Mi viene da pensare a tutte le donne che in questi mesi ho osservato cucire, in loro ho percepito dedizione e trasporto. Mi trasmettevano serenità nelle attese mentre operavano con ago e filo, e in quell’istante mi è venuto da pensare che ciò che conta non è tanto raggiungere il risultato nel più breve tempo possibile, ma godere a fondo di quel tempo.
Le donne, lavoratrici instancabili, sono per la maggior parte madri già in tenera età, a volte di moltissimi figli dei quali si prendono cura con un amore smisurato, facendo delle spalle un grembo costante.
Sono loro ad accoglierci, il progetto è indirizzato principalmente a loro, che avranno successivamente il compito di diffondere tutto ciò che apprendono.

L’usanza principale degli abitanti dei villaggi in segno di ringraziamento per il tempo trascorso insieme è cucinare un pollo, le verdure appena raccolte , ma soprattutto l’Nshima: un alimento tipico zambiano, simile alla nostra  polenta fatta con acqua (amenshi) e farina di mais bianco.
In primis viene pestato il mais all’interno di un mortaio cosi da ricavare successivamente la farina, dopodiché si versa il tutto in una pentola piena d’acqua e si mescola sino a che il composto non sia diventato denso.

Le nostre giornate nei villaggi dopo aver prodotto il sapone e consegnato gli strumenti per realizzare le mascherine, terminano a volte con una strimpellata di chitarra, magari con una tarantella calabrese, che ormai quasi ogni villaggio conosce, altre volte con semplici canti e balli tipici, altre volte ancora semplicemente salutandoci e ringraziandoci a vicenda. “TUATOTELA SANA PAKU SANGWA BONSE”
GRAZIE PER AVER CONDIVISO IL VOSTRO TEMPO CON NOI.

Salvatore

 

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