Da Coletti Debra, volontaria in Congo

22/09/09

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Karibu!!!
E’ questa la prima parola che io e Luca, il mio compagno di viaggio, abbiamo imparato in Congo. Ma il Congo è grande, è enorme, assolutamente vario.
Immaginatevi la scena: l’Africa è sempre stata il mio sogno, da quando ero piccola rimanevo incantata quando vedevo davanti a me una persona di colore. Non chiedetemi perché… non lo so neanche io, la passione per questo continente è sempre stata parte di me, un qualcosa che avevo dentro. E finalmente il mio sogno si avvera. Non ci ho voluto credere finchè non mi sono trovata in aeroporto, a Lubumbashi. Voi avevate mai sentito questo nome?! Io no, mai… ma era in Africa e questa era l’unica cosa che poteva importarmi. Un sogno che non credevo di riuscire a realizzare proprio quest’estate: avevo appena finito la maturità, i soldi erano super contati eppure… ero arrivata!!! Un sorriso a quattromila denti… svanito in circa mezzo secondo. L’impatto, infatti, non è stato dei migliori. Noi non sapevamo una parola di francese e il ragazzo nero (un viso che non dimenticherò mai) dietro allo sportello non voleva farci passare la “dogana”. Non capivo quale fosse il problema…certo è che ero nel panico più totale. Con la coda dell’occhio vedevo gente che si prendeva a pugni, zaini che venivano fatti svuotare, soldati con un fucile che, nel complesso, facevano un certo che! Comunque, alla fine, arrivata la suora, siamo partiti per la casa provinciale dove saremmo dovuti stare per qualche giorno prima di partire per Kasenga, un villaggio a circa 200 km da lì.
Bene… per rendere un po’ l’idea dico solo che per fare 200 km noi ci abbiamo impiegato più di 6 ore. “Solo” sei ore perché, finalmente, la strada per alcuni chilometri è se non alto battuta. Qualche anno fa di ore ce ne volevano nove! Una strada piena di buche, completamente fatta di sabbia… diciamo che fare rally in spiaggia non è niente in confronto!!! Eravamo su una jeap rottissima ma allo stesso tempo indistruttibile, senza maniglie per aprire la porta, con un finestrino che bisognava tirare su e giù con la mano e soprattutto… senza batteria!!!!
Questo vuol dire che se la macchina moriva (e vi assicuro che non era affatto una cosa rara), dovevano scendere tutti e spingere, sperando naturalmente che non ci fosse troppa sabbia sotto… Ci sentivamo in un film. Ma quella che per noi poteva essere una cosa divertente, per loro è un vero e proprio problema: quella strada, durante la stagione delle piogge, è impraticabile e di conseguenza gli abitanti di Kasenga e dintorni sono costretti all’isolamento finchè la stagione non termina.

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Kasenga è al confine con lo Zambia, a separali c’è un fiume, il fiume Luapula, che tra l’altro è una fonte di sostentamento fondamentale per le persone di questo villaggio.

Arrivati nella missione siamo stati accolti in una maniera straordinaria!!! Le suore ci hanno accolto come fossimo loro figli e in un mese hanno sempre dato il massimo per noi, sempre con un sorriso, una grinta e una carica pazzesca: quando una di loro iniziava a ridere partivano tutte ed era impossibile fermarle per almeno cinque minuti!!! Lì ogni piccola occasione, ogni piccola conquista si festeggiava con una semplicità che ti lasciava spiazzato, ogni piccola cosa era un dono, una festa.

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In linea di massima comunque durante la nostra permanenza lì la mattina Luca era l’addetto a montare o aggiustare sedie e banchi scolastici, mentre io dovevo “copertinare” dei libri di francese con delle pagine di giornale. Il fatto è che lì non c’erano colle, non c’era scoatch, la pinzatrice era senza graffette, le viti per i banchi erano di tutti i tipi tranne di quello che effettivamente serviva e il trapano era senza punta. Diciamo che non è stato facile e che sicuramente sei costretto a usare fantasia e ingegno!!! Pensate che ad esempio per comprare l’aceto dovevano aspettare di riportarci a Lubumbashi, perché altrimenti lì non si trovava.

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Il pomeriggio invece facevamo animazione con i bambini del villaggio. In realtà noi eravamo affiancati da alcuni animatori del posto, più o meno della nostra età, con cui peraltro abbiamo legato un sacco. I bambini erano tantissimi, arrivavano da ogni parte ed era impossibile camminare per il villaggio senza avere una scorta di almeno 50 bambini che ci seguivano. Ce ne erano di tutti i tipi, grandi, piccoli, sorridenti o tristi, sporchi o spaventati, con le treccine, con strane acconciature o con i capelli cortissimi… ma una cosa c’era sempre: un paio di occhioni neri che ti scrutavano, profondi e vispi allo stesso tempo e che non dimenticherò mai.

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Lì non c’è niente, quindi questi bambini cantano e ballano tutto il giorno, anche le stesse due canzoni, ma senza stancarsi mai. Naturalmente si divertivano un sacco a vedere noi musungu, gli unici bianchi nel raggio di 200 km, che naturalmente non riuscivano a ballare bene come loro e… diciamo che tutte le canzoni con movimenti di spalle e bacino allegati, erano le più gettonate!!! Generalmente comunque questi bambini vengono fatti mettere in fila e si marcia, cantando, facendo anche otto chilometri. Il Sabato stavamo con loro anche di mattina e si marciava fino al villaggio vicino per poi tornare indietro. C’erano bambini di quattro anni che, con i loro sandaletti in mano, camminavano per chilometri, sotto il sole, senza acqua e naturalmente senza mangiare. Le suore preparavano la bui (che abbiamo imparato a fare anche noi =) ) che poi veniva offerta ai bimbi in un bicchiere. Quello era il loro pasto.
volontari12_09Una scena ho fotografata nel mio cuore: a una bambina, a messa, avevamo regalato un fazzoletto di carta. L’ha tenuto per due ore, immobile davanti a sé, senza staccarci gli occhi di dosso, come se fosse il diamante più prezioso sulla faccia della terra. Ero sconvolta.
Andare via è stato difficilissimo… prima di partire, aperti i cancelli della missione, c’erano tutti in fila duecento bambini che cantavano e ci salutavano. Non credo di aver mai provato un’emozione simile. Abbiamo pianto per tutto il viaggio da Kasenga a Lubumbashi.
Ripensando al nostro viaggio, la cosa comunque più triste non è stata vedere quei bambini magri e con i vestiti sporchi e strappati, ma è sapere che quei ragazzi, quegli animatori che avevamo conosciuto non hanno la possibilità di avere un futuro diverso da quello. Loro sono lì, chi ha fortuna va a scuola e comunque, a parte pochi, è costretto a lavorare poi nei campi o al mercato.
Io faccio mille cose, ho mille progetti, mille sogni e prospettive. Loro no.
Durante quei giorni abbiamo anche raccolto un po’ di dati per avviare il sostegno a distanza. Speriamo di poter portare avanti questo progetto anche se non è facilissimo.
Tornati a Lubumbashi abbiamo avuto la possibilità di visitare anche altre missioni e certo, questo è stato bellissimo per noi, perché ci ha dato modo di farci un’idea più generale della situazione di quel paese.
Bo… le cose da raccontare, le emozioni sono davvero tante, troppe, difficili da trasmettere…ma come si può dimenticare quel bambino che ci ha inseguito sbracciandosi per salutarci finchè non aveva più fiato? O mama Sido che mi insegnava a fare il bukari con la sua infinita pazienza, mentre io spargevo farina dappertutto? Come possiamo dimenticare Patrick che nonostante il suo mal di testa perenne aveva sempre un sorriso gigante e cantava e ballava senza stancarsi mai? O come possiamo dimenticare papa Musonda che aggiustava la jeap in mezzo a una strada deserta con un semplice cacciavite? O… Potremmo andare avanti all’infinito.
Dico solo un’ultima cosa. Andate, rischiate, sognate. Io ho capito che tutto è possibile… basta crederci. E ne sono certa.

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