Relazione volontariato nella Repubblica Democratica del Congo

15/09/08

Sono rientrato da pochi giorni dalla Repubblica Democratica del Congo (RDC) dove mi sono fermato per 4 settimane. Se dovessi usare una sola parola per descrivere la mia esperienza direi “emozionante”.
Siamo partiti in tre: io, che mi chiamo Francesco, Marta e Giulia. Il 29 luglio abbiamo preso l’aereo per Lubumbashi, una delle più grandi città della RDC nell’estremo Sud del Paese, in una striscia di terra circondata dallo Zambia e ci abbiamo messo 24 ore per arrivare a destinazione. Cercherò di essere il più sintetico possibile ma non vi assicuro niente perché le cose da dire sono davvero tante!
Sapete come mi sento? Con una gran voglia di ricominciare da capo, di vivere la mia vita iniziando a far attenzione alle piccole cose ed apprezzando quello che ho, piuttosto che lamentarmi di quello che non posso avere. Una cosa ho imparato in questo mese, ed è che in ogni posto che ho visitato, in ogni villaggio, la gente non ha nulla ma sorride sempre ed è sempre disponibile; e quel poco che hanno lo condividono, e quel poco che ricevono li rendono felici. E’ un’esperienza che consiglierei a chiunque solo per il semplice fatto di capire quanto noi siamo fortunati.
I primi giorni li abbiamo passati in città dove Suor Lucia (italiana Doc al 100%!) ci ha portati in giro nei vari centri gestiti dalle suore: alla Ruashi, alla Casa Laura, alla Kafubu, e in una comunità subito fuori la città, Kasungami, gestito da Padre Piero, italiano anche lui. Stando qui ho notato una cosa: hanno tutti una grande forza d’animo e una voglia di rimboccarsi le maniche e fare il più possibile; alla Ruashi c’è una suora belga di 90 anni che mi ha trasmesso con le parole ma soprattutto con gli occhi una grande forza ed una voglia di ritornare in questo posto meraviglioso; lei è arrivata qui all’età di 28 anni e non è più andata via…
Con le suore ci siamo trovati benissimo, sono spassose e molto divertenti; io ho legato un po’ di più con la direttrice di Lubumbashi, Sr Lilì, ma sono tutte delle persone meravigliose; con il cibo è andata ancora meglio, almeno parlo per me. Devo dire che non ho rimpianto affatto quello italiano e anzi, ammetto che è davvero molto buono e salutare (le banane fritte erano meravigliose!).
Dopo la prima settimana passata in città, siamo partiti per Mokambo, un villaggio a circa 70 km dove per arrivarci ci abbiamo messo 2 ore di autostrada (non vi aspettate l’autostrada italiana! ) + 2 ore di vere e proprie montagne russe! Ecco, questo viaggio sulle montagne russe è una delle cose che non rifarei volentieri!
Mokambo è un villaggio fatto solo di capanne di mattoni con il tetto in paglia, dove pochissime abitazioni, se così possiamo chiamarle, hanno la corrente elettrica e dove nessuna ha l’acqua disponibile in casa. Attività commerciali? Pochissime, quasi nulle; è una popolazione che si sostenta con il lavoro nei campi e la fabbricazione di mattoni, dove la gente lavora per sopravvivere, dove ogni famiglia ha in media 7-8 figli, dove vivono tutti in 10-12 mq di spazio, dove lo sguardo di una ragazza di 20 anni ne dimostra 40, dove la popolazione cerca di risollevarsi da questa situazione ma senza l’aiuto dello Stato. Perché lo Stato, se così lo si può chiamare, non esiste…
Pensavo di poter fare di più, di rendermi più utile; un mese mi sembrava tanto ed invece ho capito che è davvero poco; qui hanno un ritmo completamente diverso dal nostro ed hanno i loro tempi. Marta e Giulia, essendo ostetriche, hanno dato una mano nel centro di maternità; si sono districate molto bene tra le visite settimanali alle future mamme e i parti un po’ fuori dal convenzionale. Però in compenso abbiamo avuto la possibilità di stare con i bambini! Sono favolosi e sono tantissimi! C’erano giorni in cui giocavamo con 100-130 bambini di tutte le età, dai 2 ai 14 anni, e noi eravamo solo in 3! Quasi nessuno parlava il francese, allora funzionava così: noi spiegavamo ad uno di loro in francese il gioco e poi lui lo spiegava in Swaili (la loro lingua) a tutti gli altri; alla fine tra il nostro francese poco francese e i vari passaggi di traduzione non sempre riuscivamo a fare il gioco prestabilito! Ne veniva fuori un altro, ma loro si divertivano ugualmente e questo era l’importante…
C’è un gioco che in Italia si chiama “attento all’omino nero!” che lì era poco appropriato! Gioco che è diventato “attento al musungu!” Chi è il musungu? …io, essendo un uomo bianco. Mi veniva una stretta al cuore quando durante i giri nei villaggi sentivo in lontananza alcuni bambini gridare “musungu!” ed indicare verso di noi. Io a quel punto mi giravo verso di loro e li facevo più smorfie possibili con la faccia, …ridevano, …che emozione.
Non immaginate nemmeno che emozione era per me vederli sorridere, vedere sorridere quei loro occhioni grandi, pieni di voglia di vivere ma anche malinconici. Ho cercato di far ridere più bambini possibile; bastava una smorfia, uno sguardo, una stretta di mano (non vi immaginereste nemmeno quante mani ho stretto) o semplicemente un saluto. Strappargli un sorriso era una cosa bellissima, indimenticabile…
Le quattro suore di Mokambo che ci hanno “sopportato” sono Sr Euphrasie, Sr Claudine, Sr, Ivette e Sr Patrithia; ognuna aveva un ruolo e ognuna aveva una grandissima forza che solo alla fine ho capito da dove tiravan fuori. Devo essere sincero, all’inizio non condividevo alcuni loro atteggiamenti e modi di fare nei confronti della popolazione, ma alla fine mi sono reso conto che loro qui sono viste come un’istituzione e che senza di loro molto di quello che è stato fatto non ci sarebbe.
Potrei continuare all’infinito a raccontare i posti meravigliosi che abbiamo visto, i paesaggi immensi, le persone meravigliose che abbiamo conosciuto a partire dagli infermieri Michelle e Francois, il tecnico dei computer Raul. Pensate che, dove siamo stati, le messe durano due ore e mezza circa, sono quasi tutte cantate ed alla fine di ogni messa tutti i nuovi si dovevano presentare. Quando siamo andati per la prima volta a messa a Mokambo il prete ci ha fatto salire sull’altare e ci ha presentati dicendo ciò che eravamo andati a fare; non immaginerete nemmeno cos’è successo: più di 600 persone si sono alzate in piedi e ci hanno applaudito… che emozione!
Ora mi fermo perché non basterebbero cento di queste pagine per raccontare tutto e poi se vi dico tutto io che gusto c’è! Dovete andarci per provare tutte le emozioni che ho provato io. Solo un’ultima cosa vi dico: in uno dei giorni passati a Mokambo, sono andato al confine con lo Zambia insieme all’autista per prendere una donna che aveva partorito nell’ospedale più vicino (e cioè in Zambia!); al ritorno il padre ha deciso di chiamare il nascituro indovinate come? Come me! Francesco! In italiano! Con la speranza che gli porti bene questo nome. Glielo auguro di tutto il cuore…
E’ stata un’esperienza che mi porterò dentro di me per tutta la vita e se Dio vorrà spero di rifarla il più presto possibile. Ciaooooooooooooooooooooooooooo

Francesco