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“Due o tre cose che so di lei”

Written by patrizia

Questa che andiamo raccontando è una storia d’amore, un rapporto burrascoso, che i nostri giovinastri chiamerebbero una relazione complicata.
La mia amata è tanto affascinante quanto schiva, onnipresente e altezzosa, un continuo desiderio inappagabile che non mi fa dormire la notte: la sua presenza ingombra i miei pensieri con un silenzio assordante.
Lo so bene: sono il ragazzino nuovo, un po’ sfigato, troppo piccolo, che nessuno considera e che viene scacciato con indolenza quando fa troppe domande; ma che posso farci? Vorrei così tanto conoscerla fino in fondo, entrare nei meandri della sua psiche…
Ogni tanto riesco a scambiarci due parole e in questi quattro mesi sono riuscito a intuire qualcosina di lei: è molto più esperta di me, ha tanti anni -incalcolabili-, è figlia di un antico imperatore, poi deposta. Hanno tentato di chiuderla in casa, nasconderla; tanti estranei, arroganti e violenti, l’hanno maltrattata; altri si sono presi cura di lei, senza dimenticarla, pazientemente e ostinatamente. Capisco perché non si fidi ancora dello straniero; in fondo io sono solo questo per lei, inevitabilmente.
Tanti i miei tentativi di approccio, molte anche le delusioni: vincere la sua diffidenza è un’impresa. Inspiegabilmente però, proprio quando non te lo aspetti, sembra aprirti una piccola breccia, uno spiraglio illuminante, e, quando socchiude la sua finestra, si lascia ammirare: ha il sorriso dolce di Benilda e lo sguardo affascinante di Inês; si intreccia i capelli con le abili mani di Domingas e ha la voce potente di Laura -l’ho udita cantare, è meravigliosa-; ha le singolari movenze strascicate e indolenti di Tembo, l’irruenza infantile di Jéssica e cucina pazientemente funje di mandioca, fuori da una casa affollata di pensatori e maschere intagliati nel legno; veste gli abiti colorati di panno cuciti da Frederico, si dimena mentre danza la sassa côkwe, seguendo il ritmo del batuque e racconta ai bambini antiche storie che nascono e muoiono nel fuoco; e infine parla quella incomprensibile lingua di Bonin, così antica che non ha bisogno del verbo essere, erede di quell’epoca che fu quando, per esprimere l’esistenza delle cose, era sufficiente nominarle.
Ho già detto che è bellissima? Eppure spesso mi sbatte in faccia la sua finestra; che pena! Addirittura, una volta, dopo aver chiesto a una delle sue guardie di poterla incontrare nei racconti antropologici di missionari cattolici, presenti e passati, e aver ottenuto il mio tanto agognato appuntamento, all’ultimo momento sono stato messo alla porta in malo modo. Che rabbia! Che umiliazione!
Essere straniero, sconosciuto, senza lettera di presentazione, senza la divisa del missionario, con una diversità impossibile da nascondere -il colore della pelle non puoi cambiarlo- e catapultato in una realtà che non parla la mia lingua mi mette all’angolo, mi stanca e mi mostra il costo della mia diversità.
Come il nostro ragazzino, continueremo a provarci con questa donna tanto affascinate, la cultura côkwe, anche se non smetteremo di essere inevitabilmente diverse: con una storia personale differente, con evidenti difficoltà linguistiche, curiosamente troppo grandi per non avere ancora figli e marito, e dagli strani capelli lunghi e lisci; laiche, europee -quindi, per definizione, ricche e colonizzatrici-, bianche. In una parola: straniere.

Benedetta e Raffaella

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