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A cena, incontrando una forma di libertà

Written by patrizia

Puntuali, ci aspettano fuori dal cancello e noi li raggiungiamo un po’ affannate -ormai siamo troppo abituate al ritardo fisiologico e indeterminato tipicamente angolano. Dopo i saluti, ci dirigiamo alla ricerca di un ristorante: in questa città può diventare un’impresa non da poco.
Siamo in compagnia di una donna e di un uomo, sposati da circa trent’anni, che se li guardi con attenzione negli occhi puoi scorgerci dentro un fuoco di vitalità e di umanità raro e commovente. Li abbiamo conosciuti in situazioni tutt’altro che simpatiche, nel Centro medico Cristo Salva di Luena -avevamo, infatti, bisogno di cure mediche.
Sono due medici argentini che lavorano qui dal 2004. Subito dopo essersi laureati rapidamente insieme, hanno lavorato in Guinea, poi su una clinica-battello per i corsi d’acqua dell’Amazzonia, visitando sistematicamente i villaggi situati sulle rive dei fiumi che si irradiano in tutta la foresta, irrigando l’immensa vita che ivi si nasconde; quindi, sono tornati in Africa, prima in Mozambico e infine in Angola. Potremo chiamarli missionari laici. Sono credenti, ma prima di ogni altra cosa in loro presenza, nei loro discorsi e nelle loro azioni incontri una grande spiritualità in cammino, una spiritualità profondamente umana.
Parlano di sé e raccontano la loro storia tra un boccone e l’altro, con lo stesso ardore delle anime giovani che traboccano vitalità, conservando quella passione che caratterizza le primavere della vita. Eppure un’immensa esperienza trapela da ogni loro parola e ogni loro sguardo.
Hanno un figlio, adottato in Guinea. È stata una loro libera scelta? Forse sì, nella misura in cui crediamo che la libertà si manifesti nella postura decisa con la quale ci posizioniamo coraggiosamente e consapevolmente nelle vicissitudini della vita (qualsiasi sia la strada intrapresa). Infatti, sebbene un figlio non lo cercassero -vista anche la loro scelta professionale-, hanno deciso di rispondere a una vita violenta e aggressiva che non lascia troppo spazio alle mezze misure. Hanno risposto in nove giorni, con esiti anche burocratici che hanno del miracoloso. Si tratta di un bambino, ormai adulto, che ora studia e lavora in Argentina, il quale, perso fra una montagna di figli in una famiglia poverissima, verteva in una condizione di malnutrizione per la quale secondo tutti era destinato a una morte imminente. Una fatale rassegnazione che spesso caratterizza territori in cui l’estrema povertà porta a un brutale istinto di sopravvivenza. Si fanno spaventosi calcoli e con tragica naturalezza si risponde: Non posso accompagnarlo all’ospedale, di tutti gli altri miei figli che ne faccio? Oppure ci si sente rimproverare da una collega: Perché stai sprecando tutta questa energia, sai che il bambino ha poche speranze di vita. A dispetto degli infausti pronostici il bambino è sopravvissuto ed è cresciuto sano e forte, e ora senza paura viaggia alla scoperta della propria strada nel mondo.
Chiediamo riguardo la spinta e la traiettoria che li ha portati fino a qui.
Il dottore ci racconta della sua infanzia e della sua adolescenza vissute in una famiglia unita e credente, nella quale ha sempre trovato appoggio e vicinanza. Il padre, anch’egli medico, lo portava tutti gli anni in viaggio per la grande, immensa e varia Argentina, gli faceva toccare con mano le sfaccettature di una molteplice umanità e lo sensibilizzava riguardo le problematiche sociali ed economiche del suo popolo. Dopo il diploma deve scegliere la sua strada. È indeciso tra ingegneria informatica e medicina: vuole studiare all’università, ma non sa in quale professione desidera formarsi. Durante un ritiro giovanile prende la sua decisione: diventerà un dottore e il suo lavoro sarà completamente al servizio di Dio e del prossimo, non erediterà la clinica del padre ma andrà laddove la missione lo chiamerà. Questa importante decisione è suggellata da tre desideri: laurearsi velocemente, ricevere abbastanza denaro da non dover chiedere e incontrare una donna con la quale poter condividere il suo progetto. Ora, al tavolo del ristorante, guarda sua moglie e sorridendo divertito, riconosce che tutto è andato e va secondo i piani.
Continuano a raccontare, sospinti dalle nostre domande e dai nostri visi affascinati e curiosi. E ci colpisce l’ardore con il quale la dottoressa ci parla della condizione delle donne in questo angolo di mondo, con quanta tristezza e rabbia vede e sente tutti i giorni una comprovata disparità di genere che legittima sofferenze e umiliazioni. Conosce, infatti, una infinità di storie di donne, sulle cui spalle grava tutta la responsabilità della casa, della cura di una tribù di bambini e degli anziani della famiglia; sulle cui teste sono in equilibrio frutta e verdura raccolte dal campo e vendute in strada; sulle cui schiene (o ai loro seni) è appeso l’ultimo nato e, nel frattempo, nei loro ventri crescono un’altra speranza di vita. Sono donne che spesso non hanno avuto la possibilità di andare a scuola: non sanno leggere né scrivere. Donne molte volte abbandonate dal marito con i figli a carico, perché i figli, in questi casi, rimangono della madre. Donne educate a sottostare ai voleri e gli ordini di uomini che le vedono solo come partorienti e come possessi. La dottoressa denuncia la struttura della famiglia che si è venuta a creare con la fusione del sostrato tradizionale e l’influenza coloniale; struttura questa, che manifesta in molte occasioni una confusione di ruoli, fra il padre e il fratello della madre; che permette e giustifica una mancanza di responsabilità e attenzione da parte dei genitori nei confronti dei figli dopo la pubertà; ancora fortemente legata alla credenze feiticeiras, tutt’altro che folkloristiche, le quali spesso hanno letteralmente rilevanza di vita e di morte sui componenti della famiglia stessa. E tanto altro ancora….
Sa bene che non esistono solo questi casi ma laddove prolifera povertà e, soprattutto, ignoranza è difficile non sentirsi distanti e indignati.
Entrambi ribadiscono il deciso desiderio di continuare nella loro strada: non si tirano indietro, anche di fronte a quelle storie che lasciano il sangue raggelarsi. Colgono come opportunità i momenti in cui riescono ad entrare intimamente a contatto con l’uomo, e soprattutto la donna, che hanno di fronte e a offrire loro un consiglio, un aiuto o solamente un sincero ascolto.
Il fiume di racconti conserva lo sguardo delle migliaia di persone che hanno conosciuto, che non sono state mai solo pazienti, ma sempre, anche con dolore, un’esperienza umana. Il loro non è un lavoro, è la vita, la loro scelta, continuamente rinnovata, di vita.
Il ritratto che ci lasciano è disegnato con le linee eleganti e sobrie della dignità e della serietà professionale, è dipinto con colori accesi di un vissuto che conosce sangue e carne ed è tutto incorniciato da un sorriso giovane che è pura leggerezza.

Luena, 16 settembre 2019

Benedetta e Raffaella

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