Stamattina, come mille altre volte, mi sono avvicinata ad Angelina per correggere il suo lavoro di matematica. Angelina, oggi più silenziosa del solito -e normalmente non spiccica più di dieci parole in tutta la lezione-, stava china sul suo quaderno sgualcito; indossava i soliti sandaletti sfondati e un giubbotto sbiadito che ho valutato a occhio di 3 o 4 taglie troppo grande per il suo corpicino. Ignoro il segno bianco che spicca sulla sua guancia, traccia di un fungo che da un po’ non se ne va dalla sua pelle; cerco di prestare attenzione alle addizioni che ha calcolato abbastanza correttamente ma vengo distratta: Angelina sta tremando. Le sfioro la fronte ed è calda, il suo collo scotta.
Due parole con l’altra volontaria e seguo i suoi suggerimenti: assegno il compito alla bambina e la accompagno da sua madre, che lavora a poche decine di metri dalla nostra aula. Arriviamo, e saluto questa ragazza minuta con il miglior sorriso che riesco a trovare; aggiorno la madre sui progressi della figlia -riguardo ai quali non mi ha mai domandato alcunché- e mi congratulo pubblicamente con la bambina. Torno a rivolgermi alla madre, le faccio notare che forse la figlia non sta bene e lei mi risponde che non ha un termometro, facendomi intendere che se non sa se abbia davvero la febbre non ha intenzione di scomporsi. Le dico che il termometro io ce l’ho, vado a misurare la febbre alla bambina: 38.88°C. Informo la madre; la sua collega manifesta l’urgenza di far visitare la bambina, lei alza le spalle e torna al suo lavoro senza una parola. Io mi dirigo verso la mia classe: sono triste per Angelina -a cui qualcuno, alla fine, si è preoccupato di darle un paracetamolo-, arrabbiata perché so che l’indifferenza -o quella che a me pare tale- in molti casi è la norma; impotente, indignata di fronte a tanta incuria, stanca di fronte a riflessioni che si susseguono a iosa, sempre terribilmente ripetitive…
In questi mesi, ho conosciuto un pezzettino di Angola e sono stata scaraventata con i piedi per terra. Non è stata la povertà: a riportarmi alla realtà non è stata la mancanza di elettricità o di acqua corrente, la varietà quasi inesistente dell’alimentazione, o l’assenza di libri e di connessione Internet; non si tratta della mancanza della merce nei “negozi”, dei prezzi troppo alti per i salari, dell’elevato tasso di analfabetizzazione, dei servizi (strade, ospedali…) insistenti o della carestia. Non mi riferisco a questo.
Non è povertà, è miseria.
La miseria di una madre che, benché abiti vicino al fiume, non si cura di lavare i propri figli e i relativi abiti; la miseria di chi si lamenta del fatto che non arrivano i prodotti dal resto del Paese e nel frattempo non si affatica a coltivare un pezzettino degli immensi terreni fertili in cui vive; la miseria di chi denuncia l’assenza di strade percorribili o dei salari troppo bassi, senza tuttavia provare a far sentire la propria voce. La miseria di un atto vandalico che rende un locale scolastico della comunità una latrina; la miseria dei professori che non insegnano -né sentono!- la necessità dei libri.
Non è povertà, è miseria, una miseria che tristemente rima con violenza; una violenza che permea tutto, senza eccezioni.
La violenza di un linguaggio che non contempla il “per favore” ma solo sgarbati imperativi, e che anche per scherzare usa continuamente espressioni prepotenti come: “Ti picchio”; la violenza che raccontano i bambini che fanno la lotta per strada senza esclusione di colpi, e che obbediscono agli adulti quasi solo quando si tratta di botte. La violenza di uno sconosciuto che ti rivolge un arrogante: “Tu mi devi sposare perché io voglio…” e si aspetta che tu, donna, ti sottometta; la violenza feroce di una cultura ormai corrotta e degenerata che sottopone bambine e donne a pratiche degradanti e umilianti. La violenza bruta di una società che non riconosce l’importanza fondamentale dell’istruzione; la tragica violenza di una scuola che non insegna a sviluppare un pensiero critico e personale ma che, quando va bene, pretende la ripetizione meccanica e mnemonica di frasi preconfezionate. La violenza crudele di una collettività che non si preoccupa nemmeno di sapere quali siano i propri diritti, figuriamoci rispettare quelli degli altri; la violenza abusante di un razzismo radicato in secoli di barbara colonizzazione. La drammatica violenza verso se stessi e i propri figli attraverso un rispetto ambientale pari a zero. La violenza di una madre che, senza nemmeno saperlo, maltratta i propri figli non degnandoli di cure mediche di base per l’irraggiungibilità dell’ospedale più vicino o, più semplicemente, per una spaventosa incuria.
Ho conosciuto un pezzettino di Angola e non ho incontrato solo paesaggi mozzafiato, tramonti romantici, abiti colorati, musiche ritmate, persone ospitali, caldi sorrisi e abbracci spontanei. Ho vissuto anche una violenza che di folkloristico non ha alcunché.
Non è povertà, è miseria.
Luena, 19 novembre 2019
Benedetta