Diari di Viaggio

Valentina – I miei primi mesi in Bolivia

Written by Maria Rita Pala

L’Hogar Casa Maìn è una casa famiglia, gestita dalle Suore Salesiane. Ospita un’ottantina di ragazze, tra i cinque e i vent’anni, abbandonate dalle loro famiglie o allontanate perché vittime di violenza. Le Suore hanno fatto un buon lavoro nel ricreare l’Eden, perché il posto, di sicuro, sembra un paradiso. Nascosto tra un polveroso incrocio sterrato, incastonato da piccoli negozietti, chiamati tiendas, dietro le mura di mattoni rossi, l’Hogar nasconde un’oasi in fiore.
È uno spazio vasto, verde e luminoso: fiori e alberi da frutto affiancano i sentieri ben tenuti che collegano le diverse strutture.
Gli animali vagano liberamente. Anatre, galline, tartarughe, e addirittura le scimmie cappuccine che mettono il naso fuori solo al calar della notte, vagano liberamente. Così fanno le ragazze. Camminano su e giù, mano nella mano. Si rincorrono, salgono sugli alberi, si lanciano giù dagli scivoli, inseguono anatre e farfalle e si divertono a provocare un’esasperata tartaruga di nome Lorenzo.
Questo è la loro casa, il loro mondo. Ed è sicuro, bello e accogliente. Molto diverso dal loro passato.

Avrò l’onore di trascorrere qui un anno, in compagnia delle giovani ospiti di Casa Maìn. Non è sempre facile, nonostante l’innegabile allegria che permea le mura dell’hogar. Il trauma appare in maniera subdola e inaspettata, si manifesta in comportamenti incoerenti, paure improvvise e difficoltà di apprendimento.

Nonostante le apparenze – chi non vorrebbe passare le sue giornate giocando con adorabili bambine? – questo tipo di volontariato comporta il relazionarsi con realtà complesse, a volte incoerenti e distanti dal modo di pensare di qualcuno cresciuto tra le tutele di una società relativamente sicura. Una sfida non inattesa, ma non per questo meno difficile. Un’esperienza di crescita, necessaria per quanto brutale, dove l’empatia e l’intelligenza emotiva giocano un ruolo fondamentale nel successo della missione.

Qualche mese fa, durante la mia prima settimana, una bambina con un tutù azzurro e una bambola di pezza tra le mani mi disse di voler diventare una dottoressa, da grande. Che le serviva studiare, ma che non voleva andare a scuola, non senza sua sorella. Ha disegnato la sua famiglia con un pezzo di gesso arancione, mentre mi raccontava come sarebbe stato tutto diverso e come questo non le piaceva. Non sapevo cosa dire. Alla fine, le dissi che sì, sarebbe stato diverso. Ma che diverso non significa malvagio. Mi ha sorriso, mi ha messo la bambola tra le mani e con un grido è tornata a giocare ad acchiapparella con le altre bambine. Così, semplicemente. Non so quanto le possa essere stato utile, ma io ho iniziato ad imparare la resilienza. No, diverso non significa malvagio.

Tutto cambia, ma la nostra speranza è la nostra forza. E bisogna sempre continuare a lottare.

 

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Maria Rita Pala